Continuiamo con le considerazioni
ottuse “felici”! Sulla scia de “La ballata dell’edonista” (leggi qui) scrivo
quanto segue. Lo spunto me lo dà principalmente una poesia di Jorge L. Borges
(“La poesia dei doni”) che riporto in fondo al post e che ho letto oggidì per
la prima volta. In questi pochi versi viene citato un personaggio mitologico,
Tantalo, di cui non conoscevo la storia. Dopo essermi informato su Wikipedia
(qui) [abbiate pietà di me, non mi andava di cercare altrove] sono rimasto
abbastanza sconvolto.
Borges e Tantalo sono diventati
improvvisamente per me un simbolo incredibilmente limpido di una verità che
andavo e sto masticando da diverso tempo: potrei quasi parlare di un epifania
(e non della befana), ma non lo faccio anche perché non sono sicuro di aver
colto fino in fondo l’implicazioni di quanto scrivo. Partirei dal caro Tantalo.
Senza tirarla per le lunghe, il buon greco era un re ben voluto dagli dei
dell’Olimpo con i quale spesso sedeva a mensa. D’altra parte il buon Tantalo
era anche un gran rompip***e e si divertiva (?) a fare offese di diverso tipo e
gravità agli dei (contento lui). Fatto sta che dopo la sua morte egli fu
condannato dagli stessi dei ad una punizione terribile: continuamente assetato
e affamato, il poverino era legato ad un albero pieno di frutti dolci e
succulenti immerso nelle acque dissetanti di un lago fino al collo. Cosa c’è di
male? Semplice: quando egli si porgeva per bere l’acqua del lago, essa si
prosciugava; quando egli provava a mordere i frutti dell’albero essi si
scostavano da lui o una folata di vento glieli portava via dalle mani. Brutto
no? Come se non bastasse, quei grandissimi str***i degli dei (come chiamarli
altrimenti?) avevano posto sopra di lui un macigno in equilibrio instabile
pronto a cadere e a schiacciare il povero morto che doveva così vivere per
l’eternità oppresso da questa paura.
Jorge Luis Borges visse lo
“stesso” dramma (almeno dal punto di vista personale): appena fu nominato
direttore della Biblioteca Nacional (800,000 volumi) argentina, lui che era un
gran lettore e appassionato di libri dovette subire l’umiliazione di diventare
quasi completamente cieco! Certo non era come non poter bere, né mangiare, né
vivere con un macigno sospeso sulla capoccia, ma per il Borges era come “vedersi”
(spiritoso no?) soffiare sotto il naso il proprio sogno, appena raggiunto, dopo
tante fatiche e sudore.
Ora quante volte mi è capitato di vivere ciò? Naturalmente
non ho potuto mai vivere questo sottile dramma fino a questi livelli di
drammaticità, però, sì, penso che in minima parte questa sia anche un
esperienza quotidiana: quante volte mi capita di dover anche solo per un motivo
futile cercare un po’ di pace o un po’ di ristoro in qualche attività o con
qualche persona, magari faticare come sette buoi sotto il sole d’agosto per
poter raggiungere questa oasi di tranquillità e poi magari inconsapevolmente
accorgermi che la “cosa” (non so come esprimermi meglio) che cercavo in quella
situazione o persona è sparita non appena sono arrivato? Dico inconsapevolmente
proprio perché non è sempre detto che me ne renda conto, anche se magari una
certa insoddisfazione di fondo, mi dice che non tutto va bene.
Non vorrei auto citarmi, però
ricordo bene che una volta la prof.essa di religione alle medie ci fece questa
domanda: “Che cosa è la felicità?”. Dopo averci pensato un po’ su (neanche
troppo in realtà) risposi subito convinto: “Per
me la felicità non esiste, perché appena uno prova ad afferrarla essa scivola
via” (naturalmente la citazione non è letteraria, ma il senso è questo)!
Sicuramente avevo e ho problemi seri, però ci sto lavorando su.
Ora sicuramente molti di voi mi
diranno che sono un pessimista. Bene io vi dico che è vero: è una nota del mio
carattere (penso si fosse capito no?), ma non è una cosa che apprezzo né in me
né negli altri. È una cosa così inutilmente vile il pessimismo, quasi un
arrendersi alla vita prima ancora di essere scesi in battaglia solo perché si
ha paura del Dolore che si potrebbe subire, che penso sia un errore madornale
l’accettare di vivere con esso e di renderlo addirittura un valore della
propria esistenza. Infatti nell’affrontare la questione sono d’accordo con
Borges il quale accettò la sua sorte come una specie di ironia divina, senza
mai auto commiserarsi. Questo mi sembra un atteggiamento giusto, anche se non
il migliore dato che quello di Borges rimane di sottofondo un affrontare in
modo stoico la vita, quindi non un modo gioioso di viverla.
Ora come affronto però la
questione di Tantalo e quindi di fatto la questione della felicità? Dovrei
chiedermi: cos’è la felicità? Che cosa cerco davvero quando, semplicemente,
vivo? Perché diavolo quando ci sono io, sembra quasi che davvero la felicità si
prosciughi completamente? Chi è il colpevole di tutto ciò? Dio? Il fato? Io? La
Natura? L’evoluzione? La ragione? Il corpo? Siccome non voglio dare né una
risposta affrettata né una risposta preconfezionata, “retta”, a queste domande,
ci rifletterò su e spero che anche voi possiate farlo, o almeno provarci. Forse
domani la risposta, vediamo…
La poesia di Borges, che vi consiglio vivamente di leggere per la sua bellissima e dolce tragicità, la potete trovare a questo link: "La poesia dei doni"
forse noi pensiamo che la vera felicità deve durare in eterno,magari dura un attimo,aiutare l'amico,svegliarsi con la voglia di fare quello che si vuole,stare con la persona che amiin quel tale posto oppure inaspettatamente succede qualcosa di bello di cui non avevi neppure immmaaginato,oppure ti passa vicino e non te ne accorgi.adesso sono felice di risponderti!
RispondiEliminaSi la felicità è davvero questo? Mi ponevo anche io il problema della felicità e della sua durata. Purtroppo per ora non riesco a superare alcune difficoltà sul problema, nello specifico: gli attimi di felicità sono davvero la felicità? La felicità si può davvero possedere? Posso basare la vita su una felicità che va come un motorino Ciao (cioè a scatti)? Domani in treno ci rifletto
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