mercoledì 1 febbraio 2012

Sull'emozioni

Ecco una nuova considerazione ottusa, la prima della nuova veste grafica del blog (p.s. spero vi piaccia). La scrivo un po' di fretta e anche un po' di getto e quindi molto probabilmente ne verra fuori una cosa solo abbozzata. Ma come mi piace pensare, vi lascio l'opportunità di arrichirla delle vostre idee e considerazioni più personali se ne avete voglia. E come al solito se non vi va o non vi piace questa considerazione ottusa potete spedire le vostre rimostranze a: Mare Tranquillitatis n 32, Luna.
 

Oggi ho avuto un'illuminante pensiero circa il mio modo di rapportarmi con le emozioni. Il mio pregiudizio di partenza è questo: le emozioni non sono né buone né cattive, però possono essere sia aiuti sia ostacoli al raggiungimento del fine di un'azione. Per dirla più semplice sono come delle viti (brutta immagine, ma è la prima che mi viene in mente): se da una parte aiutano a tenere fermo un qualcosa al tempo stesso rendono difficoltoso il rimuovere lo stesso. 

Detto questo, ne conseguo che non mi piace né osannarle né demonizzarle: possono essere ottimi indicatori di un qualcosa di più profondo (come atteggiamenti psichici profondi e radicati) così come possono essere dei formidabili ingannatori circa il bene da raggiungere. Bisogna sia prenderle alla leggera sia fare molta attenzione a ciò che vogliono dire. Tutto sommato devono comunque essere sottoposte ad un giudizio prudente e di certo non devono essere lasciate libere di vagare e dettare legge o represse in modo inumano.

Tutto questo in teoria; in pratica le emozioni diventano spesso un biscottino ricoperto di cioccolato e ripieno di crema. Una gratificazione. Quindi un modo per sentirmi vivo. Sbagliato! Le emozioni così diventano il surrogato di un qualcosa di più importante, di più duraturo, di più bello e buono. Le emozioni non possono essere vissute come gratificazioni, nel senso assoluto del termine, perché non è questo il loro scopo, perché la vera Gratificazione non è un qualcosa che viene da me stesso, ma deve necessariamente nascere dall'Altro. Certo è che esse sono a volte anche delle gratificazioni che derivano dalle nostre azioni, ma non possono diventare il fine delle mie azioni, perché così le assolutizzo e le deformo. 

Detto questo non ho detto niente lo so, ma come dicevo all'inizio se volete metteteci voi le vostre considerazioni fondamentali.

1 commento:

  1. Le emozioni forse vogliono dire qualcosa di più, nel senso che forse non sono solo abbellimenti o abbruttimenti del modo in cui percepiamo o reagiamo di fronte alla realtà. Sto dicendo che ho difficoltà a considerare le emozioni come in se stesse "indifferenti" (né buone né cattive, oppure solo di aiuto o di ostacolo). Voglio dire che le emozioni hanno e possono avere un valore conoscitivo: della realtà, di ciò che la realtà suscita in noi e di come reagiamo di fronte a tale realtà. La paura, ad esmpio, lo sperimentare paura, indica la presenza di (che mi trovo presente a) un pericolo: qualcosa che può essere pericoloso (o che io giudico pericoloso) per la mia vita, o perché me la può togliere o perché me la può rendere molto più difficile, dura, penosa... Pertanto la paura, l'emozione paura, segnala (mi segnala) la presenza di qualcosa di pericoloso per me. Il problema non è quindi aver paura di un leone vero, reale, che mi sta assalendo (anzi, l'averne paura mi potrà spingere a difendermi opportunamente, ad esempio con la fuga); diventa, può diventare problematica, quando il leone è un leone di peluche, o è una semplice immagine o rappresentazione di un leone... Voglio dire che il problema nasce quando ciò di cui ho paura non esiste nella realtà o non la rappresenta in modo adeguato. Il problema non sta nell'aver paura: la paura è una sorta di segnalazione che il mio "sistema" emotivo fa a me stesso riguardo alla presenza di qualcosa di pericoloso; il problema è la presenza. Se sia davvero presente, in modo reale, qualcosa di pericoloso, oppure se sto giudicando come pericoloso qualcosa che in realtà non lo è. In quest'utlimo caso andrà cercato il motivo per cui temo tanto ciò di cui forse non ci sarebbe (o così si opina) motivo di aver paura. E qui il lavoro di approfondimento delle cause ci porterebbe molto lontano, forse a situazioni o eventi di vita che ci hanno portato a percepire come pericoloso ciò che in realtà non lo è.
    Concludo queste brevi riflessioni con un'altra affermazione: non si tratta tanto di negare o di non voler avere certe emozioni (soprattutto quelle negative), oppure di pensare ad esse come un opcional della nostra vita personale e di relazione. Non si tratta di dire "non dovrei sperimentare questa emozione", oppure "dovrei sperimentare quest'altra". Si tratterà piuttosto di riuscire a comprendere il perché delle mie emozioni, attraverso un processo di accettazione, di comprensione di significato, di conapevolezza del valore di quanto sto provando. Solo poi potrò essere in grando di avviare un eventuale vero processo di trasformazione, di cambiamento, di gestione di quella mia emozione.

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